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ALTA FEDELTA' - CALCO (Lecco)

Harbeth Super HL5

Naim Nait 5si suona con Harbeth SHL5

Abbiamo tutti, una volta o l’altra, avuto la sensazione che da qualche parte nel nostro passato - in quello di tutti, forse - un valore, un’importanza siano stati persi, sostituiti da qualcosa che non costituiva precisamente un guadagno.

 

Forse si trattava delle cromature delle automobili di un tempo, rimpiazzate dal coefficiente di penetrazione e dai parafanghi in plastica stampata; forse delle canzoni con la chitarra a dodici corde e il tamburello, che ci facevano sognare mentre quelle che le hanno rimpiazzate non hanno piu` nemmeno una voce completamente umana a interpretarle.

Poi ci capita di risalire su una Fiat 1300, o di riascoltare i vecchi 45 giri, e capiamo che qualcosa in cambio abbiamo avuto. La nostra automobile moderna consuma un terzo di quella con le cromature, la compagna di classe che ci arrestava il respiro e` una nonna, la riedizione del Festival di Sanremo del 1964 ci fa venire il latte alle ginocchia. E’ l’oggi, siamo vivi.

 

Nel mondo dell’HiFi nostalgie e smentite sono invece ancora in guerra, e non si vede vincitore all’orizzonte: le valvole, il vinile, perfino gli incomprensibili driver a una via tengono banco, e c’e` chi pensa a ripristinare il mono. Qualcuno trova i diffusori anni Settanta inascoltabili, altri ci risentono la loro giovinezza; ma in generale la tecnica ha fatto qualche passo avanti, e l’iPod fa sembrare il vecchio Walkman quello che era: un work in progress, nato per diventare obsoleto.


Poi, capita di imbattersi in un’idea che non solo non si e` lasciata pensionare, ma si e` evoluta restando se stessa ed e` arrivata all’oggi senza cambiare e senza vendersi, dimostrando la propria bonta` con il semplice andare per la propria strada: usando la tecnica per rinnovarsi, conquistare qualita`.

L’ho pensato vedendo, sullo scaffale del negozio dell’amico Alfredo, una coppia (due, in realta`) di diffusori Harbeth: le SHL5. Due grosse scatole di legno con la tela nera davanti. Nessuno fa piu` le casse cosi`: perfino il piu` ostinato e isolato auto-costruttore cerca, da vent’anni, di imitare il massello curvilineo delle Sonus faber.

Nessuno a parte Alan Shaw: un Inglese coi capelli e il viso da Inglese, che possiede la ditta, progetta le sue casse, le prova, ne discute sul suo forum, le vende in ogni angolo del mondo e nel fine settimana va a spasso nel villaggio di Lindfeld, nel West Sussex (dove ha sede la piccola e prosperosa azienda), fotografandone angoli incantevoli che poi posta sul suo sito.

 

I mobili delle sue Harbeth non sono ultra rigidi: i pannelli sono spessi una decina di millimetri. A picchiettarli con le nocche fanno un bump un po’ sordo, e sembrano ‐ uhm, molli. Ma cosi` (dice l’accelerometro) le risonanze (inevitabili) vengono tenute al di sotto dei 100Hz, e non disturbano la gamma media. Il pannello anteriore e quello posteriore non sono incollati, ma avvitati: per disaccoppiare ulteriormente le masse, e combattere le risonanze ancora un po’. Le dimensioni delle SHL5 sono importanti: 63 x 32 x 30 - dai tempi delle AR3a non si vedevano simili cose. Vanno messe su stand, ma sono grandi come casse da pavimento.

Sono a tre vie: e, come se non bastasse, la terza via e` un supertweeter. Qual e` l’ultima cassa che ricordiamo avesse un supertweeter? Una Sansui?

 

Credete a uno che ci ha provato: piazzate in un salotto saranno poco meno ingombranti del frigo, e dovranno stare a distanza dalle pareti. Decisamente, non cercano di far parte dell’arredamento. Ma, guardandole, si rimane ipnotizzati dalla bellezza delle proporzioni, in qualche modo eleganti: e cercando di rimuovere la tela si vedra` che il suo fine telaio metallico si incastra nel profilo della cassa con precisione, uscendone con difficolta`: va lasciato al proprio posto, per contribuire - in modo calcolato - al coefficiente di rigidita`.

Dal Canada alla Cina, aziende producono stand apposta per le Harbeth (vedesi anche gli italianissimi Cstand); e Alan Shaw, incontrato nel Maggio del 2012 al Salone dell’HiFi di Monaco, mi disse, sfilando con un certo stupore dalla tasca della giacca un foglietto sul quale aveva, evidentemente, appuntato a biro dati sensibili, che le vendite delle Harbeth, in Italia, erano nell’ultimo anno quadruplicate. In Giappone le venerano; forse anche noi non siamo privi di gusto. 

 

Le SHL5, ho pensato, sono come Kate Winslet: terribilmente British, e del tutto seducenti. Come le ho collegate al mio piccolo amplificatore di riferimento, il Nait 5si (Alfredo ha cose ben piu` costose e performanti, ma il piccolo Nait dimostra che con €1280 e` possibile avere ottimo suono), hanno avuto ragione subito: belle le voci, giusti timbri, profondo e potente il basso; di una ricchezza insospettabile la tavolozza dei colori, la veridicita` del suono. Dinamiche, vivaci ma composte.

Si dice che le Harbeth, in generale, eccellano nella riproduzione della voce: sara`, ma io ho sentito chitarre perfette, pianoforti che sembravano veri, uno xilofono che mi ha fatto sobbalzare dal divano. Il cinemascope era quasi sempre assente; la bellezza del suono, mai.


Francamente, accettati i loro limiti (che sono tutti hi-fi, non musicali: un suono un po’ nella scatola, non grande dispersione laterale a fronte, pero` di un’immagine alta e profonda) mi sono sembrate migliori di tutte le altre che stavano loro intorno, e di molte del negozio, anche parecchio piu` care.

In Inghilterra il mantra a proposito delle Harbeth e`: non per l’hi-fi, per la musica. Le chiamano diffusori per la vita, e c’e` chi ne possiede piu` di un paio.


Tornando all’inizio: ecco, questo e` il suono di quaranta anni fa, d’accordo: ma come quaranta anni fa non ci siamo mai sognati di averlo. Dietro la tela nera, oggi, c’e` tecnologia quanto basta, e si sente.

 

Massimo Bertola

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